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Descrizione
(Torino, 16 dicembre 1940 – Roma, 24 aprile 1994)

Boetti Alighiero

BIOGRAFIA

Alighiero Boetti nasce il 16 dicembre 1940 a Torino.
Il padre, Corrado Boetti, è avvocato, la madre Adelina Marchisio è invece una violinista.
Si avvicina all’arte da autodidatta, e frequenta per un certo periodo i corsi di studio alla Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, poi abbandonati.
Sin dall’adolescenza l’artista inizia a coltivare alcuni dei numerosi interessi cui, grande viaggiatore, si dedicherà nel corso della vita, dalla musica alla matematica, dalla filosofia all’esoterismo, dalle culture del Medio ed Estremo Oriente a quelle africane.
Subisce il fascino di un celebre antenato, Giovanni Battista Boetti, nato a Piazzano del Monferrato nel 1743. Monaco domenicano dalla vita avventurosa, dal 1769 l’avo fu missionario a Mossul (oggi in territorio iracheno) e nel Kurdistan.
La figura del monaco si intreccia con quella, leggendaria, del profeta Al-Mansur che combattendo i russi divenne signore del Caucaso, e secondo gli studiosi si trattò quasi certamente della stessa persona.

Fra il 1960 e il 1965 Alighiero Boetti realizza alcuni dipinti e disegni astratti; poi, con una tecnica da disegno industriale, una serie di riproduzioni a china di oggetti fra cui microfoni, cineprese e macchine fotografiche; infine compie esperimenti con gesso, masonite, plexiglas ed elementi luminosi.
Nel 1962 conosce Annemarie Sauzeau, che sposa nel 1964 e da cui ha due figli, nati entrambi a Torino: Matteo, nel 1969 e Agata, nel1972.

L’esordio pubblico avviene nel gennaio 1967 con un’esposizione personale alla Galleria Christian Stein di Torino, dove presenta un nucleo di opere costruite e assemblate con materiali extra-artistici e industriali, come l’eternit, il ferro, il legno, il tessuto mimetico e le vernici a smalto, che continuerà ad utilizzare anche nelle successive mostre.

Fra queste “Arte povera – Im spazio” alla Galleria La Bertesca di Genova nel settembre 1967, l’occasione in cui Germano Celant traccia per la prima volta le caratteristiche principali del movimento Arte Povera, e a fine anno una personale nella stessa galleria genovese.
Massimo sperimentatore, Boetti arricchisce il proprio lavoro con una grande varietà di materiali e procedimenti, in opere riferite agli oggetti quotidiani e ai gesti, come quello dell’accumulazione in “Catasta” (1966), e di carattere concettuale come “Lampada annuale” (1966), una lampadina che si accende solo una volta all’anno, per undici secondi e in un momento imprecisato, definita dallo stesso artista “un’espressione non dell’avvenimento, ma dell’idea dell’avvenimento stesso”1. Attratto dal rapporto con il corpo, Boetti rivela anche un forte interesse verso il linguaggio e i fenomeni che si producono nella realtà, realizzando opere in cui è presente l’aspetto processuale, talvolta ambienti come il “giardino” allestito per l’esposizione personale alla Galleria De Nieubourg di Milano nella primavera 1968.

Partecipa alle principali esposizioni internazionali dell’Arte Povera e degli artisti concettuali che Celant include nel volume Arte Povera edito da Mazzotta nel 1969.

L’attività del movimento poverista, inteso come gruppo, terminerà nel 1972.
Intanto, nel 1968, Boetti realizza “Gemelli”, un doppio autoritratto in fotomontaggio – la propria immagine riprodotta in due figure simili ma non identiche che si tengono per mano – dove la dimensione esistenziale si intreccia con quella artistica attraverso una scissione del sè.
L’anno seguente si concentra sulla reiterazione del gesto, fra ossessione e meditazione Zen, con “Cimento dell’armonia e dell’invenzione”, un paziente ricalco a matita di numerosi fogli di carta quadrettata, una sorta di rituale eseguito registrando i suoni prodotti.
Al termine, l’artista annota la durata dell’operazione.

Nel marzo 1971 Boetti si reca per la prima volta in Afghanistan, dove fino all’occupazione sovietica nel dicembre 1979 tornerà all’incirca due volte l’anno. Egli commissiona alle donne afghane diversi tipi di manufatti, opere da lui disegnate e ricamate secondo la tradizione locale. Con il primo lavoro della serie “Mappa” (1971-1972), un planisfero politico in cui ciascun territorio viene ricamato con i colori e i simboli della bandiera di appartenenza, Boetti utilizza “ciò che nella realtà già esiste, ma per la prima volta attraverso un meccanismo che differenzia i soggetti coinvolti nel progetto (l’artista) e nell’esecuzione (le afghane)”2.
Nel 1974 Boetti dirà: “il lavoro della Mappa ricamata è per me il massimo della bellezza. Per quel lavoro io non ho fatto niente, non ho scelto niente, nel senso che: il mondo è fatto com’è e non l’ho disegnato io, le bandiere sono quelle che sono e non le ho disegnate io, insomma non ho fatto niente assolutamente; quando emerge l’idea base, il concetto, tutto il resto non è da scegliere”3.
È la svolta della sua opera in ambito essenzialmente concettuale, avvenuta nel 1972 in concomitanza con lo sdoppiamento del proprio nome in “Alighiero e Boetti” (operazione con cui mette in crisi l’identità dell’artista stesso) e con il trasferimento a Roma, dove egli dichiara di aver scoperto il colore.4
Fra i numerosi viaggi in Afghanistan, Boetti ne compie uno con Francesco Clemente nel 1974 e uno con il figlio Matteo nel 1977 e durante uno dei primi soggiorni, ancora intorno al 1972, apre a Kabul un albergo che chiama One Hotel.
Appena giunto a Roma, Boetti avvia un altro meccanismo di cui si fa regista, delegando l’esecuzione a terzi: la produzione delle opere a penna biro (cfr. “Mettere al mondo il mondo”, 1972-1973), ovvero le serie di fogli di cartoncino che alcune persone vengono incaricate di riempire seguendo le indicazioni dell’artista, ma con un margine di libertà concesso alla gestualità del tratteggio a penna.
In queste opere si ritrova così la manualità di un gesto minimo ripetuto che era già in “Cimento dell’armonia e dell’invenzione” e nel ricamo.
La prima mostra personale in un museo straniero, nel 1974 al Kunstmuseum di Lucerna, è seguita da un’importante antologica alla Kunsthalle di Basilea nel 1978, e da numerose esposizioni museali degli anni Ottanta e Novanta in Europa e Stati Uniti.

Nel 1985 si trasferisce in uno studio accanto al Pantheon, luogo molto amato e citato nei testi che l’artista inserisce in un gran numero di lavori, come frasi scritte con la mano sinistra o sotto forma di lettere ricamate.
Le parole di Boetti vanno così a comporre una sorta di diario privato che scorre parallelo alla quotidiana produzione delle opere.
Durante gli anni Ottanta e fino alle committenze dei Novanta, ricevute dall’artista per grandi installazioni in ambienti museali, l’organizzazione per la produzione delle opere è ben collaudata. Aumentano i lavori su carta e si sperimentano nuove realizzazioni, ad esempio i mosaici.
Come sempre, all’aspetto progettuale del lavoro segue l’apporto esterno della manualità altrui.
Al Pantheon Boetti segue la progettazione e realizzazione delle numerose tipologie di lavori, in particolare delle opere in tecnica mista su carta con cui, nel 1980, ha inaugurato una serie di cicli tematici (cfr. “La natura, una faccenda ottusa”, 1980; “Tra sé e sé”, 1987).
In un’intervista del 1986, Boetti chiarisce la sua idea di pittura: “avevano ragione gli Etruschi a fare le foglie blu: dipingere una foglia blu è un atto di invenzione del mondo, dato che la foglia verde esiste già come tale nel regno delle cose e sarebbe meno interessante come rappresentazione”5.
Nel 1985 torna in Giappone, dove ha già esposto nel 1980 e insieme al calligrafo Enomoto san realizza alcuni lavori su carta di riso.
Risale invece al 1983 la fedele riproduzione in bianco e nero, a matita, delle prime copertine di riviste e periodici, raccolte dapprima in mesi e poi in anni costituiti da 12 disegni di copertine (cfr. “Anno 1990”). “In quel mese – scrive l’artista – le immagini erano milioni. Oggi, forse qualche centinaio. Poi, rimarrà solo questa copia sbiadita di un tempo coloratissimo”.6
Sono opere dedicate all’attualità, un tema caro a Boetti sin da quando, nel 1967, ha concepito l’opera in progress “12 forme dal 10 giugno 1967” (1967-1971).
La produzione dei ricami è intanto ripresa grazie ai contatti con i rifugiati afghani a Peshawar, in Pakistan e proseguirà fino al 1994.

Nel 1990 Boetti è invitato alla Biennale di Venezia con una sala personale.
La allestisce interamente con opere in tecnica mista su carta, affollate da animali (insieme ad altri elementi ricorrenti nel suo lavoro) e sovrastate da un “Fregio” (1990) che percorre il perimetro superiore dell’ambiente, un ulteriore omaggio dell’artista alla pittura antica.
In questa occasione riceve il “Premio Speciale della Giuria”.

Separatosi da Annemarie Sauzeau nei primi anni Ottanta, nel 1990 sposa Caterina Raganelli e dall’unione nasce, nel 1992, il terzo figlio Giordano.
Con l’arrivo delle commissioni più importanti, le opere sembrano riflettere una creatività che guarda il mondo a 360 gradi.

Gli artisti più giovani si avvicinano a Boetti, che fra il 1992 e il 1993 è impegnato nella regia di grandi realizzazioni come i 50 kilim “Alternando da uno a cento e viceversa”, un’opera collettiva per la personale a Le Magasin di Grenoble.

Il senso ludico, spesso presente nelle sue opere, resta una componente importante, tuttavia alcuni lavori sembrano rivelare una riflessione esistenziale, forse un’ulteriore necessità di tracciare un resoconto di vita.

Mentre la rassegna internazionale “Sonsbeek ‘93” espone la scultura “Autoritratto” (1993) – una fusione in bronzo della figura di Boetti che simbolicamente rappresenta i quattro elementi aria, acqua, terra e fuoco – all’artista viene diagnosticata la malattia che lo porterà alla morte, il 24 aprile 1994, nella sua casa in via del Teatro Pace a Roma.

TITOLO: Calendario
TECNICA: Collage di fogli di calendario su carta
DIMENSIONI: cm 34,5 x 24,5
ANNO: 1986
NOTE: firma in alto al centro, Archivio Boetti su foto

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